La via dello Zen, A. Watts

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 13/6/2017, 16:20
Avatar

Junior Member

Group:
Member
Posts:
40

Status:


La Filosofia del Tao

Il Buddhismo Zen è una pratica e una visione della vita che non appartengono a nessuna categoria formale del moderno pensiero occidentale. Non è religione o filosofia; non è una psicologia o un tipo di scienza. E' un esempio di ciò che è noto in India e in Cina come una "Via di Liberazione", ed è analogo sotto questo riguardo al Taoismo, al Vedanta, e allo Yoga.
Come sarà presto evidente, una Via di Liberazione non può avere nessuna definizione positiva.
Dev'essere suggerita dicendo ciò che essa non è, un po' come uno scultore rivela una figura rimuovendo le schegge da un blocco. Storicamente, lo Zen può considerarsi come il compimento di lunghe tradizioni di cultura Indiana e Cinese, sebbene in realtà molto più Cinese che Indiano e, dal XII secolo, si sia profondamente radicato (e molto costruttivamente) nella cultura del Giappone. Come fruizione di queste grandi culture, e come esempio unico e particolarmente istruttivo di Via di Liberazione, lo Zen è uno dei più preziosi doni dell'Asia al mondo.
Le origini dello Zen sono sia Taoiste sia Buddhiste e, poiché il suo profumo è così tipicamente cinese, è forse meglio iniziare indagando sui suoi antecedenti cinesi e illustrando al tempo stesso mediante l'esempio del taoismo ciò che si intende per via di liberazione.
Gran parte delle difficoltà e delle mistificazioni che lo Zen presenta allo studioso occidentale è il risultato della sua scarsa familiarità con i modi di pensiero cinesi; modi che differiscono sostanzialmente dai nostri e che sono, proprio per questa ragione, di particolare valore per noi nella ricerca di una prospettiva critica delle nostre idee. Il problema non è qui semplicemente di padroneggiare idee diverse, che differiscono dalle nostre come, diciamo, le teorie di Kant differiscono da quelle di Descartes, o quelle dei Calvinisti da quelle dei Cattolici. Il problema è di tenere in dovuto conto le differenze nelle premesse fondamentali nel pensiero e nei veri e propri metodi del pensare. Differenze così facilmente trascurate, che le nostre interpretazioni della filosofia cinese tendono ad essere una proiezione, nella terminologia cinese, di idee tipicamente occidentali. Questo è l'inevitabile svantaggio di chi studia la filosofia asiatica coi metodi puramente letterari della cultura occidentale. Poiché le parole possono essere comunicative soltanto tra coloro che dividono esperienze analoghe.
Ciò non significa che una lingua così ricca e articolata come l'inglese sia semplicemente inetta ad esprimere idee cinesi. Al contrario, essa è in condizione di esprimere assai più di quanto abbiano creduto possibile taluni studiosi cinesi e giapponesi dello Zen e del Taoismo, la cui dimestichezza con l'Inglese lascia alquanto a desiderare. La difficoltà risiede non tanto nel linguaggio quanto nei modelli di pensiero, che sono fin ora sembrati inseparabili dal modo accademico e scientifico di affrontare un argomento. L'inadeguatezza di questi modelli per argomenti come il Taoismo e lo Zen è largamente responsabile dell'impressione che lo "Spirito Orientale" sia misterioso, irrazionale e imperscrutabile. Inoltre, non bisogna credere che questi soggetti siano così tipicamente cinesi o giapponesi da mancare di qualsiasi punto di contatto con la nostra cultura. Mentre è vero che nessuna delle suddivisioni formali della scienza e del pensiero occidentali corrisponde a una Via di Liberazione, il mirabile studio di R. H. Blyth sullo Zen in English Literature ha mostrato molto chiaramente che le intuizioni essenziali dello Zen sono Universali.
La ragione per cui a prima vista il taoismo e lo zen rappresentano un tale enigma per la mente occidentale sta nel fatto che noi abbiamo una visione ristretta del sapere umano. Per noi quasi tutto il sapere consiste in ciò che un taoista chiamerebbe conoscenza convenzionale, poiché noi non sentiamo di sapere veramente qualcosa se non possiamo rappresentarcela con parole, o con qualche sistema di segni convenzionali come le notazioni della matematica e della musica. Tale conoscenza è detta convenzionale perché è un fatto di convenzione sociale né più né meno che i codici del linguaggio. Proprio come la gente che parla il medesimo linguaggio ha taciti accordi riguardo le parole da usare per indicare determinate cose, così i membri di ogni società e di ogni cultura sono tenuti uniti da vincoli di comunicazione che poggiano su ogni specie di accordo riguardo la classificazione e la valutazione di azioni e di cose.
Così, il compito dell’educazione consiste nel rendere i fanciulli adatti a vivere in una società, persuadendoli a imparare e ad accettare i suoi codici, ossia le norme e le convenzioni dei rapporti mediante le quali la società si mantiene unita. V’è dapprima la lingua parlata. Al bambino si insegna ad accettare “albero” e non “brum-brum” come segno convenuto per quella cosa (indicando la cosa). Non abbiamo alcuna difficoltà a comprendere che la parola “albero” è una questione di convenzione. Meno ovvio è invece il fatto che la convenzione governa anche la definizione della cosa alla quale la parola è assegnata. Difatti al bambino non si deve soltanto insegnare con quali parole indicare le cose, ma anche il modo in cui la sua cultura ha tacitamente convenuto di distinguere le cose, di segnarne i confini, nei limiti della nostra quotidiana esperienza. Così, la convenzione scientifica decide se un’anguilla debba essere un pesce o un serpente; e una convenzione grammaticale determina quali esperienze debbano essere definite oggetti e quali eventi o azioni. Quanto sia arbitraria tale convenzione lo si può vedere dalla domanda: “Che cosa avviene del mio pugno (nome-oggetto) quando apro la mano?”. L’oggetto svanisce come per miracolo, poiché un’azione era mascherata da un nome generalmente assegnato a una cosa. In inglese le differenze fra cose e azioni sono distinte in modo netto, seppure non sempre logico, ma un gran numero di parole cinesi ha funzione sia di nome che di verbo, così che una persona che pensi in cinese non incontra serie difficoltà a rendersi conto che gli oggetti sono anche eventi, che il nostro mondo è una raccolta di processi piuttosto che di entità.
Oltre al linguaggio, il bambino deve accettare molte forme di codici, poiché le esigenze del vivere associato richiedono convenzioni come i codici di legge e di etica; di etichetta e di arte; di pesi, misure e numeri; e – soprattutto – di “ruolo”. V’è difficoltà a comunicare fra di noi, se non possiamo identificarci in termini di ruolo: padre, insegnante, lavoratore, artista, “bravo ragazzo”, gentiluomo, sportivo, e così via. Nella misura in cui ci identifichiamo con tali stereotipi e con le regole a essi collegate di condotta sociale, noi sentiamo di essere qualcuno, e i nostri compagni hanno meno difficoltà ad accoglierci (ossia, a identificarci e a sentire che siamo “sotto controllo”). L’incontro di due estranei a un ricevimento è sempre un po’ imbarazzante quando l’ospite non ne abbia specificato i “ruoli” nel presentarli, poiché nessuno dei due sa quali regole di conversazione e di condotta osservare.
Ancora una volta, è facile rendersi conto del carattere convenzionale dei ruoli o condizioni. Un uomo che sia padre, infatti, può essere anche medico e artista, allo stesso modo che impiegato e fratello. Ed è ovvio che pure la somma totale di questi ruoli-etichette sarà lontana dal fornire una descrizione adeguata della personalità dell’uomo, anche se può collocarlo nell’ambito di una certa classificazione generale. Ma le convenzioni che dominano l’identità umana sono più sottili e molto meno ovvie di queste. Noi impariamo perfettamente, seppure molto meno esplicitamente, a identificare noi stessi con una veduta del pari convenzionale della nostra personalità: l’“io”, o la “persona”, convenzionale è composto in misura prevalente di una storia che consiste di memorie selezionate, a partire dal momento della nascita. Secondo la convenzione, io non sono semplicemente ciò che sto facendo ora: sono anche ciò che ho fatto; e la mia versione convenzionale del mio passato è fatta in maniera da sembrare quasi più il reale “me stesso” di ciò ch’io sono in questo momento. Quel che io sono – infatti – appare così fuggevole e intangibile, mentre quel che io sono stato è fisso e definitivo. È la solida base per le previsioni di quel che sarò in futuro, e ne consegue che sono più strettamente identificato con ciò che non esiste più che con ciò che è realmente!
È di grande importanza riconoscere che le memorie e gli eventi passati, che costituiscono l’identità storica di un uomo, altro non sono che una selezione. Dalla concreta infinità di eventi e di esperienze, taluni sono stati scelti – cioè astratti – come significativi, e questa significanza è stata naturalmente determinata da modelli convenzionali. Infatti, la conoscenza convenzionale denuncia nel suo carattere stesso di essere un sistema di astrazioni; consistente di segni e di simboli nei quali cose ed eventi sono ridotti ai loro contorni generali, come il carattere cinese jen sta per “uomo”, essendo l’estrema semplificazione e generalizzazione della forma umana.
Lo stesso dicasi di parole non ideografiche: le parole “uomo”, “pesce”, “stella”, “fiore”, “corsa”, “crescita” denotano tutte classi di oggetti e di eventi che si possono riconoscere come membri della loro classe da semplicissimi attributi, astratti dalla intera complessità delle cose medesime.
L’astrazione è in tal modo quasi una necessità per comunicare, giacché ci rende capaci di rappresentare le nostre esperienze con semplici e rapide “prese” mentali. Quando noi diciamo di poter pensare solo una cosa alla volta è come se dicessimo che l’oceano Pacifico non può essere inghiottito tutto d’un fiato. Dev’essere preso in una tazza e mandato giù a sorsate. Le astrazioni e i segni convenzionali sono come la tazza: riducono le esperienze a unità abbastanza semplici da poter essere comprese una alla volta. In maniera analoga, le curve si misurano riducendole a una sequenza di minuscole linee diritte, o pensandole in termini di quadrati che esse attraversano quando vengono tracciate su di un grafico.
Altri esempi dello stesso processo sono le fotografie dei giornali e le trasmissioni televisive. Nelle prime, una scena naturale è riprodotta in una serie di puntini chiari e scuri disposti su uno schermo o “retino” così da dare l’impressione di una fotografia in bianco e nero, se guardata senza lente di ingrandimento. Per quanto possa rassomigliare alla scena originale, la fotografia riprodotta non è che una ricostruzione della scena in termini di piccoli segni; un po’ come le nostre parole convenzionali e i nostri convenzionali pensieri sono ricostruzioni di esperienze in termini di segni astratti. In modo ancora più simile al processo del pensiero, la telecamera trasmette una scena naturale attraverso una serie lineare di impulsi che possono passare lungo un filo.
Così, la comunicazione mediante segni convenzionali di questo genere ci dà una traduzione astratta, “una cosa per volta”, di un universo in cui le cose accadono “tutte in una volta”; di un universo la cui realtà concreta sfugge sempre, in questi termini astratti, a una perfetta descrizione. Con questi mezzi, la descrizione perfetta di una particella di polvere richiederebbe un tempo infinito, dato che si dovrebbe tener conto di ogni punto del suo volume.
Il carattere lineare, "una cosa per volta", del discorso e del pensiero è di particolare evidenza in tutte le lingue che usano alfabeti, rappresentanti esperienze in lunghe sequenze di lettere. Non è facile dire perché dobbiamo comunicare con altri (parlare) e con noi stessi (pensare) servendoci di questo metodo "una cosa per volta". La stessa vita non procede in questa maniera tarda, lineare; e gli stessi nostri organismi potrebbero a malapena sopravvivere un momento se dovessero controllarsi registrando ogni respiro, ogni battito del cuore, ogni impulso dei nervi. Ma se vogliamo trovare una spiegazione a tale caratteristica del pensiero, il senso della vista offre una suggestiva analogia. Infatti noi siamo forniti di due tipi di visione: quella centrale e quella periferica, non dissimili da una luce concentrata e da una luce diffusa. La visione centrale serve per una operazione accurata come la lettura, nella quale i nostri occhi si concentrano su una piccola area per volta, come dei fari. La visione periferica è meno cosciente, è di splendore meno intenso che il fascio di luce del faro. La usiamo per vederci la notte e per acquisire una percezione "subconscia" degli oggetti e dei movimenti al di fuori della diretta linea della visione centrale. A differenza della luce concentrica essa può ammettere molte cose in una volta.
V'è, quindi, una analogia (e forse più che una semplice analogia) fra la visione centrale e il modo consapevole di pensare "una cosa per volta", e fra la visione periferica e il processo piuttosto misterioso che ci rende capaci di regolare l'incredibile complessità dei nostri corpi senza pensare affatto. Si dovrebbe notare, inoltre, che la ragione per cui chiamiamo complesso il nostro corpo deriva dal tentativo di comprenderlo in termini di pensiero lineare, di parole e concetti. Ma la complessità non risiede tanto nel nostro corpo quanto nel gravoso compito di cercare comprenderlo coi mezzi del pensiero. E' come cercare di cogliere i particolari di un salone con il semplice ausilio di un piccolo raggio luminoso. E' complicato come cercare di bere dell'acqua usando una forchetta al posto di una tazza.
Sotto questo riguardo, la lingua cinese scritta ha un leggero vantaggio sulla nostra, il che è forse indizio di un differente modo di pensare. Anch'essa è lineare, anch'essa è costituita da una serie di astrazioni accolte una per volta. Ma i suoi segni scritti sono un po' più aderenti alla vita di quanto non siano le parole formate di lettere; poiché tali segni sono in sostanza dei quadri e, come dice un proverbio cinese, "una sola dimostrazione vale cento detti". Confrontate, per esempio, la facilità di mostrare a qualcuno come fare un nodo complicato con la difficoltà di spiegarglielo soltanto a parole.
Or, la generale tendenza della mentalità occidentale è di ritenere che noi siamo in grado di capire veramente solo ciò che possiamo rappresentare, ciò che possiamo comunicare, per mezzo di segni lineari - per mezzo del pensiero. Noi siamo come la ragazza "che fa da tappezzeria" a una festa da ballo, la quale non riesce a imparare una danza se qualcuno non le traccia il diagramma dei passi; ossia non sa "apprenderla d'istinto". Per qualche ragione, non ci fidiamo e non facciamo pienamente uso della "visione periferica" della nostra mente. Noi impariamo, per esempio, la musica limitando la gamma completa dei suoni e dei ritmi a una successione di intervalli tonali e ritmici fissi (una successione che è inadeguata a rappresentare la musica orientale). Ma il musicista orientale possiede solo una tematica rudimentale, che usa esclusivamente per rammentare una melodia. Egli impara la musica, non leggendo le note, ma ascoltando l'esecuzione di un maestro, acquisendo il "senso" della musica, e imitando il maestro; e ciò lo rende capace di ottenere sofisticazioni ritmiche e tonali emulate soltanto da quegli artisti occidentali di Jazz che seguono la medesima iniziazione.
Non vogliamo dire che gli occidentali non si servono addirittura della "mente periferica", come esseri umani, la si usa di continuo; e ogni artista, ogni lavoratore, ogni atleta chiama in gioco un determinato sviluppo delle sue facoltà. Ma ciò non è degno di considerazione da un punto di vista accademico e filosofico. Noi abbiamo a malapena cominciato a renderci conto delle possibilità della mente periferica, e di rado - per non dire mai - ci sovviene che uno dei suoi usi più significativi riguarda quella "conoscenza della realtà" che ci ingegniamo di ottenere con incomodi calcoli di teologia, metafisica e deduzione logica.
Quando ci volgiamo all'antica società cinese, troviamo due traduzioni "filosofiche" che svolgono ruoli complementari: il confucianesimo e il taoismo. Parlando in generale, il primo s'interessa alle convenzioni linguistiche, etiche, giuridiche e rituali, che provvedono la società del suo sistema di comunicazione. Il confucianesimo, in altre parole, si preoccupa della conoscenza convenzionale; e sotto i suoi auspici i fanciulli vengono allevati in modo che la loro natura in origine disubbidiente e capricciosa sia resa adatta al letto di Procuste dell'ordine sociale. L'individuo definisce se stesso e il suo posto nella società nei termini delle forme confuciane.
Il taoismo, d'altro lato, è in genere un meta di uomini più anziani, e specialmente degli uomini che stanno per ritirarsi dalla vita attiva della comunità. Il loro ritiro dalla società è una specie di simbolo estrinseco di una intrinseca liberazione dai legami dei modelli convenzionali di pensiero e di condotta. Il taoismo - infatti - si interessa alla conoscenza non convenzionale, con una comprensione diretta della vita, invece che mediante gli astratti e lineari termini del pensiero rappresentativo.
Il confucianesimo presiede, quindi, al compito socialmente necessario di forzare la spontaneità originale della vita nelle rigide regole della convenzione: un compito che implica non soltanto il conflitto e pena, ma anche la perdita di quella peculiare naturalezza e incoscienza di sé per la quale i bambini sono tanto amati, e che tal volta è riguadagnata dai santi e dai saggi. La funzione del taoismo è di rimediare all'inevitabile danno di questa disciplina, e non solo di restaurare ma anceh di sviluppare la spontaneità originale, che è definita tzu-jan o "identità con se stessi".
Infatti la spontaneità del bambino è ancora infantile, come ogni altra cosa che lo riguardi. L'educazione incrementa in lui la rigidezza, non la spontaneità. In certe nature, il conflitto tra convenzione sociale e spontaneità repressa è così violento che si manifesta in crimini, insania e nevrosi: il prezzo che noi paghiamo per i benefici, d'altronde innegabili, dell'ordine.
Ma il taoismo non va inteso come rivolta contro la convenzione, per quanto esso talora sia stato usato a pretesto di rivoluzioni. Il taoismo è una via di liberazione che non si attua mai con mezzi di rivolta, dacché è notorio che la più parte delle rivoluzioni instaurano tirannie peggiori di quelle che distruggono. Essere liberi dalla convenzione non significa respingerla, ma non farsi da essa fuorviare: saperne usare come strumento anziché esserne usati.
L'Occidente non ha alcuna istituzione riconosciuta corrispondente al taoismo, poiché la nostra tradizione spirituale ebraico-cristiana identifica l'Assoluto-Dio con l'ordine logico e morale della convenzione. Questo potrebbe quasi definirsi una formidabile catastrofe culturale, perché grava sull'ordine sociale con autorità eccessiva provocando proprio quelle rivolte contro la religione e la tradizione che hanno così fortemente caratterizzato la storia occidentale. Una cosa è sentirsi in conflitto con le convenzioni socialmente sanzionate, ma tutt'altra cosa è sentirsi in discordia con le radici stesse e il terreno della vita, con l'Assoluto medesimo. Quest'ultimo sentimento nutre un senso di colpa così ingiusto che non può che sfociare o nella rinnegazione della propria natura, o nel rifiuto di Dio. Poiché la prima di queste alternative è, in definitiva, impossibile (come sputare via i propri denti), la seconda diventa inevitabile, quando certi palliativi come il confessionale perdano ogni loro efficacia. Com'è nel carattere delle rivoluzioni, la rivolta con Dio dà luogo a una tirannia ancora peggiore, quella dello stato assolutista - peggiore in quanto non può mai perdonare, e perché non riconosce nulla oltre la sua facoltà giurisdizionale, infatti, anche se quest'ultima affermazione è applicabile a Dio, la chiesa, sua terrena rappresentazione, è sempre stata disposta ad ammettere che, sebbene le leggi di Dio siano inderogabili, nessuno potrebbe avere la presunzione di fissare i limiti della sua misericordia. Quando il trono dell'assoluto è lasciato vacante, il termine relativo lo usurpa, e commette la vera idolatria, la vera indennità nei confronti di Dio: l'assolutizzazione di un concetto, di una astrazione convenzionale. Ma è improbabile che il trono si sarebbe reso vacante se - in un certo senso - non lo fosse già stato; se la tradizione occidentale avesse avuto un modo per apprendere l'assoluto in via diretta, all'infuori dell'ordine convenzionale.
Naturalmente, la stessa parola " Assoluto" ci suggerisce qualcosa di astratto e di concettuale, al pari di "Puro Ente". La stessa nostra idea di "spirito" come opposto a "materia" sembra avere piú attinenza con l'astratto che con il concreto. Ma nel taoismo, come nelle altre vie di liberazione, l'Assoluto non deve essere mai confuso con l'astratto. D'altro lato se diciamo che il Tao, com'è chiamata l'ultima realtà, è il concreto piuttosto che l'astratto, ciò può condurre a nuove confusioni. Poiché noi siamo avvezzi ad associare il concreto con il materiale, il fisiologico, il biologico e il naturale, come concetti distinti dal soprannaturale. Ma dal punto di vista del taoismo e del buddismo questi sono ancora termini per sfere convenzionali e astratte di conoscenza.
La biologia e la fisiologia, per esempio, sono tipi di conoscenza che rappresentano il mondo reale nei termini delle loro stesse categorie astratte. Esse misurano e classificano il mondo in modi appropriati all'uso particolare che ne intendono fare, così come un agrimensore si occupa della terra in misura di acri, un appaltatore in trasporto o tonnellate, e un analista del suolo in tipi di strutture chimiche. Affermare che la realtà concreta dell'organismo umano è fisiologica equivale ad affermare che la terra è un dato numero di tonnellate od acri. E affermare che questa realtà è naturale è abbastanza esatto se intendiamo "spontanea" (tzu-jan) o natura naturans; ma è del tutto inesatto se intendiamo natura maturata, vale a dire natura classificata, assortita in "nature" come quando si dice: "Qual è la natura di questa cosa?" È in questa accezione della parola, che dobbiamo pensare al "naturalismo scientifico", dottrina che non ha nulla da spartire col naturalismo taoista.
Così, per cominciare a capire di che si occupi il taoismo, dobbiamo almeno essere preparati ad ammetter la possibilità di una visione del mondo che non sia convenzionale, di una conoscenza che non sia contenuta nella nostra superficiale coscienza, la quale può apprendere la realtà soltanto nella forma di una sola astrazione (o pensiero, il cinese nien) alla volta. Non v'è nessuna difficoltà reale in questo, in quanto ammetteremo fin d'ora di " sapere" come muovere le mani, come prendere una decisione, o come respirare, anche se riusciamo a stento a spiegarlo con parole. Sappiamo come fare tutto ciò semplicemente perché lo facciamo! Il taoismo è un'estensione di questo genere di conoscenza, un'estensione che ci dà una visione di noi stessi molto differente da quella cui siamo per convenzione abituati, una visione che libera la mente umana dalla sua costrittiva identificazione con l'ego astratto.
Secondo la tradizione, il fondatore del taoismo, Lao-tzu, fu un più anziano contemporaneo di Kung-Fu-tzu, o Confucio, che mori nel 479 a. C.' Si dice che Lao-tzu sia stato l'autore del Tao Te Ching, un libretto di aforismi, che espone i principi del Tao e il suo potere o virtù (Te). Ma la filosofia cinese tradizionale ascrive sia il taoismo sia il confucianesimo a fonti anche piú remote, ad un'opera che appartiene alle fondamenta stesse del pensiero e della cultura cinesi, databili ovunque fra il 3.000 e il 1200 a.C.: è lo I Ching o Libro delle Mutazioni.
Lo I Ching è chiaramente un libro di divinazione. Consiste di oracoli basati su sessantaquattro figure astratte, ognuna delle quali è composta di sei linee. Le linee sono di due tipi: divise (negative) e indivise (positive); e le figure di sei linee, o esagrammi, si crede siano state fondate sui vari modi nei quali un guscio di tartaruga si screpola quando viene riscaldato. Questo si riferisce ad un antico metodo di divinazione mediante il quale l'indovino praticava un buco nel dorso di un guscio di tartaruga, lo riscaldava, e quindi prediceva il futuro dalle crepe del guscio così formatesi: pressappoco come i chiromanti si servono delle linee della mano. Naturalmente, queste crepe erano molto complicate e si suppone che i sessantaquattro esagrammi siano una classificazione semplificata dei vari tipi di screpolature. Da molti secoli, ormai, il guscio di tartaruga è caduto in disuso, e — in sostituzione — l'esagramma è determinato dalla casuale disposizione di un mazzo di cinquanta gambi di millefoglio.
Ma un esperto dello I Ching non ha proprio necessità di servirsi di gusci di tartarughe o di gambi di millefoglio. Può "vedere" un esagramma in qualsiasi cosa: nella disposizione di un mazzo di fiori in un vaso, in oggetti sparsi su di una tavola, nei segni naturali di un ciottolo. Uno psicologo moderno riconoscerà in questo qualcosa di affine a un test Rorschach, nel quale la condizione psicologica di un paziente è diagnosticata dalle immagini spontanee che egli "vede" in una complessa macchia di inchiostro. Se il paziente sapesse interpretare le proprie proiezioni sulla macchia di inchiostro, otterrebbe qualche utile informazione su di sé per orientare la sua futura condotta. Tenendo conto di questo, non possiamo respingere l'arte divinatoria dello I Ching come pura e semplice superstizione.
Infatti, un interprete dell'Iching potrebbe darci una valida prova della bontà relativa del nostro modo di prendere decisioni importanti. Noi sentiamo di decidere razionalmente, perché basiamo le nostre decisioni su una considerevole raccolta di dati circa il fatto in questione. Non dipendiamo da futili inezie come il lancio casuale di una moneta o i disegni delle foglie di té, o le crepe di un guscio. Nondimeno, egli potrebbe chiederci se sappiamo davvero quali informazioni siano importanti, dato che i nostri piani sono di continuo sconvolti ad opera di incidenti del tutto imprevisti. Potrebbe chiederci com'è che sappiamo di aver raccolto una sufficiente quantità di informazioni in base alle quali decidere. Se fossimo rigorosamente "scientifici" nel raccogliere i dati necessari per le nostre decisioni, ci vorrebbe un tempo così lungo che l'ora d'agire sarebbe trascorsa da molto prima che il lavoro fosse finito. E come sappiamo che siamo informati a sufficienza? Ce lo dice forse l'informazione stessa? Niente di tutto ciò: noi ci mettiamo in moto per cdocumentarci in modo razionale, e poi, per una specied i intuizione, o perché siamo stanchi di pensare, o perché è giunta l'ora di decidere, noi agiamo. Egli chiederebbe se questo non equivale a dipendere da "futili inezie", altrettanto che se avessimo sparpagliato i gambi dei millefoglio.
In altri termini, il metodo "rigorosamente scientifi" di predire il futuro può applicarsi soltanto in casi speciali: ove non urge una azione immediata, ove i fattori coinvolti siano in larga misura meccanici, o le circostanze così ristrette da essere insignificanti. La netta maggioranza delle nostre decisioni importanti dipende da una "impressione": in altre parole, dalla "visione periferica" della mente. In tal modo, l'opportunità delle nostre decisioni si fonda, in ultima analisi, sulla nostra abilità a "sentire" la situazione, sul grado di sviluppo di questa "visione periferica".

Edited by Helicarnelis - 13/6/2017, 17:47
 
Top
0 replies since 13/6/2017, 16:20   26 views
  Share